Ritratto di un uomo comune
di Antonio Bastanza
Paolo Rossi dell’uomo comune aveva praticamente tutto, a partire dal nome, che sarebbe potuto essere quello del tipo designato sulla scheda di ogni campagna pubblicitaria su come votare alle elezioni. La faccia morbida, ricoperta da capelli fitti e ordinati, la bocca leggermente inarcata all’insù, pronta a un sorriso in ogni momento, la parlata semplice e pulita, mai fuori posto nemmeno nei contraddittori e uno sguardo diretto ma placido, attento, furbo dietro il quale si nascondeva un rapace d’area di rigore come pochi nella storia del calcio italiano.
Paolo Rossi non è mai stato il più grande attaccante della sua generazione, in quanto a talento o abilità balistiche. Gli era superiore l’elegante Bettega, la granitica coppia gol granata Pulici e Graziani, il giovane Spillo Altobelli e il funambolico Bruno Giordano e, non ultimo, quella tempesta d’area di rigore chiamata Roberto Pruzzo. E, probabilmente, anche tutti i paolorossi che seguirono negli anni a venire, tra tutti Montella e Inzaghi, gli sono stati superiori in valore assoluto.
Paolo Rossi era però il migliore di tutti in quella che è la grande virtù dell’uomo d’area: essere nel posto giusto al momento giusto.
Capitò spesso nella carriera di Pablito e non fu mai per caso o per volontà delle divinità del calcio. Capitò perché Paolo da Prato fece di tutto per farlo capitare, con impegno, dedizione e professionalità.
Accadde a Vicenza, prima vera tappa da professionista dopo gli anni di apprendistato alla Juventus, nella quale, anche a causa di una serie di infortuni, non giocò che alcuni spezzoni nella coppa nazionale, e la parentesi al Como, in cui esordì in serie A, senza farsi notare parricolarmente. Nella Lanerossi il brutto anatroccolo che giocava largo sulla fascia senza brillare particolarmente si trasformò, per una intuizione di GB Fabbri, in una spietata macchina da gol da 64 reti in 90 partite che porterà la squadra Veneta del presidente Farina alle soglie di una clamorosa vittoria in campionato. Era il 1978 e Paolo sembrava destinato a spaccare il mondo, forte di una convocazione al mondiale di Argentina a furor di popolo, nel quale realizzò anche 3 reti pesantissime.
Accadde nel 1982 quando Enzo Bearzot decise, contro tutto e tutti di affidargli le chiavi dell’attacco nei mondiali di Spagna ’82. Una partenza sofferta poi 3 gol al Brasile, 2 alla Polonia, 1 in finale alla Germania Ovest: Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo. Paolo era li dove doveva essere, la palla lo cercava e lo trovava al posto giusto e al momento giusto.
Accadde alla Juventus, forse la squadra del suo cuore, non certo quella della sua vita, che resterà per sempre la Nazionale. I bianconeri lo sedussero da ragazzo, non puntarono su di lui dopo le meraviglie vicentine lasciando che Farina si svenasse sino all’inverosimile per riscattarlo, e lo riaccolsero dopo i fatti legati al calcioscommesse che videro un ingenuo Pablito finire nel buco nero di uno dei più grandi scandali della storia sportiva italiana. Giocava a Perugia, che lo acquistò dal Vicenza retrocesso dopo solo una annata di gloria, non disse di si ma nemmeno di no alla combine della partita con l’Avellino: due anni di squalifica. Boniperti lo rivolle a Torino, gli disse di allenarsi il doppio degli altri, di sposarsi e di concentrarsi solo sul calcio. Rientrò nella primavera del 1982, 3 partite 1 gol, sufficienti a renderlo abile e arruolato per la spedizione Mundial, in barba a tutti quelli che volevano a tutti i costi il centravanti della Roma Roberto Pruzzo, che veniva da uno strepitoso triennio con 45 gol in 82 partite.
Alla Juventus vinse quasi tutto ma rimase, quella con i bianconeri, una relazione di reciproco interesse piuttosto che di vero amore, anche a causa di questioni contrattuali che lo resero inviso a Boniperti, al pari di altri compagni reduci dal Mundial come Tardelli e Gentile, e che confinarono il suo ruolo a quello di comprimario.
Lo rivolle Farina, che dopo l’avventura con la Lanerossi acquistò un Milan in fase calante con l’unico merito di averlo poi venduto a Silvio Berlusconi, ma con i rossoneri giocò poco e male, segnando raramente. Divenne pedina di scambio col Verona per l’acquisto di Nanu Galderisi e concluse l’ultima stagione da calciatore, quella 86/87, con soli 4 gol in 20 partite.
Smise a 31 anni per guai fisici, in un’epoca in cui i difensori colpivano duro e aver ginocchia fragili non era certo d’aiuto, ma non smise mai di essere Pablito, il boia del Brasile, odiato da un intero popolo per aver spezzato il sogno di quella che probabilmente era la squadra nazionale più forte di ogni tempo, pur con due sagome nei ruoli di Portiere e Centravanti.
Non restò nel calcio, il cui ambiente lo disgustava da tempo, e si costruì, nel tempo, una carriera da commentatore e opinionista di gran livello affermandosi per competenza e modi.
Paolo Rossi è stato il centravanti di tutti, o almeno di tutti quelli della mia generazione ed è stato, molto banalmente, anche il motivo per cui ho iniziato a tifare Juventus.
Se ne è andato tra le braccia della sua compagna, malato di un male incurabile, lasciandoci sorpresi, increduli, come per ogni rete che realizzava, come quando quell’uomo comune spinse l’Italia sul tetto del mondo