Maradona, che cosa hai fatto delle nostre vite?
“Non importa quello che hai fatto della tua vita, importa quello che hai fatto con le nostre”, questo è quello che recita uno scrittore argentino. Gli argentini, come i napoletani, hanno il dono di saper rendere grandi, immortali, le vicende del passato, e Maradona è stata l’unica meraviglia che diverse generazioni hanno, qui e lì, hanno potuto vivere.
Comincerei così da questo striscione il mio personale ricordo di Maradona. Di aneddoti ne avrei a migliaia, anche se non ci ho mai parlato. Maradona è stato uno di famiglia, per molte famiglie, è entrato nelle case di tutti, nella tradizione partenopea, dove si lascia un posto libero per la Bella ‘Mbriana, lui si è preso il posto a capotavola, lì dove c’era la radio, la televisione o il giornale a raccontare le sue imprese dopo il ragù domenicale.
Le narrazioni maradoniane di questi giorni sono stereotipate, luoghi comuni ovunque, anche in chi lo disprezza sui social. Perdonali Diego perché non sanno quello che dicono, in fondo non hai pagato le loro tasse, non hai tradito le loro moglie e non hai consumato le loro droghe, eri un essere umano più umano dell’umano con tutte le fallibilità del caso.
Maradona, in fondo, è stato l’ultimo eroe analogico in una realtà che è ormai diventata bipolare nel suo essere virtuale, dove tutto è pro o contro, dove non c’è spazio per la Pietas, dove non si perdona nulla, rinchiusi come si è nell’apparente perfezione virtuale di una foto manipolata da photoshop, di una citazione colta e di una bugia che, troppe volte raccontata, rasenta la parvenza della verità.
Io e te, Diego, ci incrociammo per la prima volta all’alba di Italia 90 quando giocasti contro il Racing Club di Avellenada allo Stadio Partenio Lombardi di Avellino, il San Paolo si stava rifacendo il trucco in vista del prossimo mondiale.
Inutile dire che quella sera eravamo lì tutti per te. Il tuo verbo pedatorio aveva riuniti fedeli azzurri e non, c’erano anche diversi juventini a vederti giocare. La partita finì 4-1, da qualche parte ho ancora il biglietto, e la sciarpa di quell’evento. Quello fu il nostro primo incontro, fu amore a prima vista, tra una finta, un’accelerazione, un dribbling e tanti cori. Il passaggio di testimoni era avvenuto, il rito era riuscito, il bello del calcio è anche questo, il passaggio di fede tra padre e figlio, il trait d’union che sugella un legame che si crea con la conoscenza e con il retaggio, non in modo biologico, ma culturale.
Piaccia o non piaccia il calcio è cultura e non solo. Così quando il millenium bug minacciava di spazzare via tutta la civiltà occidentale, mi ritrovai in Finlandia, dove la Premier la faceva da padrona, con Liverpool, Arsenal e Manchester. E io tifavo Napoli, già e che avevo? Solo Maradona mi dicevano, tutto lì. Solo Maradona dicevo, l’uomo che per 90 minuti su un campo di calcio ha dimostrato più di migliaia di saggi sulla geopolitica e sull’antropologia culturale.
Su Maradona potrei raccontare tante cose, dalla Coppa Uefa, agli scudetti, dal fatto che ovunque andassi, nei villaggi più sperduti della Polonia e della Lituania, tutti lo conoscessero, nessuno escluso: Napoli? Maradona! Già.
La geografia, si imparava anche così, in un mondo a porta d’uomo, il calcio era portatore di curiosità, ora che tutto è a portata di un click non abbiamo più quella curiosità intrinseca, motore di idee, ma ci affidiamo a confessioni pruriginose, da scolaretti impegnati ad apprendere nozioni, così di Maradona possiamo sapere tutto senza conoscerne niente per finire a scrivere giudizi sulla sua esistenza terrena decontestualizzandola. Maradona era come Atlante, il titano mitologico, e sulle sue spalle si è portato il peso del continente sudamericano, per troppo tempo.
Comunque, dicevo all’inizio, importa quello che ha fatto delle nostre vite, e per concludere vi racconto la storia del Mia, un amico di mio padre, mancato quest’anno anche lui, grande tifoso Sampdoriano, capace di trascinarci allo stadio anche con il brutto tempo. Fu così che grazie a lui, un giorno finimmo a Masone, sul confine tra Piemonte e Liguria, perché Rai 3 edizione Liguria, trasmetteva la partita.
Quel giorno pioveva, il Napoli era in bianco. Dennis Bergkamp, diceva il Mia, è stato l’unico calciatore che ho visto uscire con la maglia candida da Marassi in un giorno di pioggia, leggi, non ha toccato un pallone. Maradona no, lì a Masone, sulle frequenze regionali, nel mezzo di un pantano tutto sporco, come solo gli eroi omerici sanno essere, lontanissimo dal candore e dalla purezza degli eroi mediatici moderni, con un colpo mancino, sbuca fuori e insacca il pallone della vittoria. Maradona era anche questo, piccolo, tarchiato, scuro, un messia poco telegenico, sempre pronto a schierarsi dalla parte del mondo che i tele obiettivi erano restii ad affrontare, lui che nacque a Villa Fiorito, cercate su Google l’immagini di quella casa e forse, ne capirete qualcosa di più.
Comunque Ezio, questo il nome del Mia, quella partita non se la scordò mai, anzi, come già accennato, per lui, quello divenne il canone calcistico. Come, Maradona si sporca la maglia e segna in maniera scomposta, poco elegante, mentre Bergkamp fa il modello e se ne esce dal campo fangoso senza nemmeno toccare un pallone? Maradona era questo per il Mia, un sampdoriano sfegatato, e ad ogni nostro incontro attaccava così: “Quel piccoletto però, uscito dal fango, sapeva giocare come nessuno mai al mondo”
Grazie Diego per essere stato diverso. Grazie Diego per esserci stato. Grazie Diego per essere.